Quell’estate in motorino correvamo all’impazzata per le strade di campagna vicino al paese.
Avevamo sedici anni, voglia di divorare la vita e tanta polvere negli occhi. Ci mancava solo il mare, ma a quell’età non ce ne rendevamo neanche conto e passavamo i nostri pomeriggi al fiume a farci il bagno dove l’acqua, cristallina e gelida, formava delle piccole pozze blu.
I giorni che precedevano la festa patronale erano pieni di entusiasmo e di eccitazione. Ogni anno le solite ricorrenze, gli stessi riti, ma per noi era come se fosse tutto sempre diverso.
Saltavamo sui nostri motorini e correvamo sulle colline, lontani da chiunque potesse chiederci di fare qualcosa, e la durata di una giornata poteva essere dilatata come una fisarmonica: alcune erano eterne, quelle in cui pioveva ad esempio, altre volavano ed arrivava il tramonto e dovevamo correre a casa in tempo per la cena. Ovviamente arrivavamo in ritardo e ci sembrava di sentire le urla dei nostri genitori già a qualche chilometro da casa. Poi rimproveri, qualche punizione, e tutto ricominciava da capo fino al ritardo successivo.
Erano le estati delle prime cotte, quelle delle prime birre, dei primi baci imbronciati e taciturni.
Appena erano mature le ciliegie salivamo sugli alberi per rubarne quante la nostra pancia riusciva a contenerne.
Appena erano mature le spighe di granoturco andavamo nel campo più vicino e le rubavamo per mangiarcele arrostite sui falò.
Rubavamo, rubavamo di continuo, ma non era un ladrocinio da punire: in realtà rubavamo solo la vita, i sedici anni fugaci ed eterni, che non sarebbero mai più tornati.
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